sabato 25 luglio 2009

..c'è sempre qualcosa da imparare!

Ecco la testimonianza di Giulia, ragazza in missinoe a Manaus con il gruppo Ra.Mi (www.ragazzimissionari.it).

UNA mattina come un’altra nelle assolate strade di Manaus, Amazzonia, Brasile.
Nel quartiere di Coroado il traffico a volte sembra scorrere intenso, neanche si fosse a Time Square: solo che a travolgerti non sono le mercedes o le fuoriserie di ricchi uomini d’affari occupati tutto il giorno ad accumulare soldi sulle spalle altrui, ma le carrette succhiabenzina che pochi fortunati si possono permettere per correre in qua e in là, cercando di lavorare furiosamente per arrivare a sera con qualcosa da mettere in tavola, sono i motorini scassati di quelli un po’ meno fortunati che si accontentano di girare il bairro, se tutto va bene, prima di celebrare le esequie del proprio mezzo di locomozione, sono le biciclette oppresse dal peso a volte di un’intera famiglia, che riescono a malapena a condurre una mamma e il suo figlioletto di nemmeno tre anni verso un asilo piccolo, bianco, ben curato, dove quattro signorine vestite di bianco e di azzurro lo cureranno amorevolmente fino a sera.

È finita un’altra giornata di duro lavoro per gli abitanti del bairro di Coroado, Manaus, Amazzonia, Brasile.
Il traffico che tutto il giorno imperterrito ha continuato a scorrere come un fiume in piena, come una corsa all’infinito alla ricerca di chissà che cosa, sta piano piano rallentando. Sono dei girasoli, questi brasiliani: il loro ritmo si accorda perfettamente a quello del Sole, e quando questi dà segni di stanchezza, e comincia ad avvolgersi molto velocemente di calde coperte rosse prima di sparire nella notte più buia, ogni occupazione giornaliera si volge lentamente al termine, e tutto ciò che è sole, che è ricerca, che è affanno e fatica di costruirsi attorno una Vita Migliore reclina il capo dolcemente, e lascia spazio alle attività notturne, quelle che si lasciano andare alla disperazione, al bisogno di calore, qualsiasi calore umano, al desiderio di fuggire da una situazione che non vuole cambiare, all’abbandono in tutto ciò che può sembrare un rifugio abbastanza gradevole.
Ma questa è la notte, è l’altra faccia del popolo che soffre ridendo, quando il sole è alto, e se si lascia andare è solo al coperto delle tenebre di una notte silenziosa, che saprà mantenere il segreto.

IN mezzo a tutto ciò c’è quel fugace momento, quello in cui una faccia del mondo passa il testimone all’altra, quella in cui il Sole comincia a cambiare vestito, quella in cui i ragazzini sono ancora per strada, a piedi, e tornano da scuola, senza troppa fretta perché chissà cosa li aspetta a casa, e allora perché non dilungarsi ancora in una risata, un gioco, uno scherzo rubato a quel tempo così piccolo quando ancora il giorno non è andato a dormire, c’è ancora tempo per giocare con un aquilone.
I ragazzini si mescolano all’ondata di persone che non hanno né carrette succhiabenzina, né carretti veri e propri, né motorini scassati, né biciclette piegate dal peso di tanta gente, ma semplicemente i loro piedi, a volte scalzi, altre muniti di ciabattine da quattro soldi, qualcuno chissà, forse con un paio di scarpe quasi vere.
Me ne sono accorta fin dai primi giorni della mia permanenza all’asilo delle suore di Madre Teresa, a Coroado: me ne sono accorta proprio durante uno dei miei lavori, che era quello di sistemare le scarpette dei bambini tutte in fila su un tavolinetto, pronte ad essere riconosciute dalle loro mamme una volta giunta l’ora di tornare a casa… i poveri non sono tutti uguali.

OGNI essere umano, da che mondo è mondo, ha la tendenza di semplificare i concetti che si formano nella sua mente, al fine di ricordarsene in grande quantità, e molto più facilmente: così ci sono i ricchi da una parte, e i poveri dall’altra.
Ma se io dicessi una cosa del genere a quella che era la mia vicina di casa, a Coroado, non mi capirebbe. Esistono numerose differenze anche tra quelli che noi banalmente chiamiamo “poveri”, e sono più esattamente indicate dal fatto di avere una casa in legno o in muratura, di abitare in un’invasione o in un bairro, di avere la porta o meno, di avere un letto e un fornello oppure no, di avere semplici sandaletti appuntati con una spilla per non fare uscire l’infradito, o delle scarpette chiuse che possano perlomeno dirsi indossabili… e via dicendo.
I poveri non sono tutti uguali.

QUEL pomeriggio, esattamente in quel momento della giornata dove tutto sarebbe cambiato da un momento all’altro e presto non si sarebbe più potuto dire “boa tarde” ma “boa noite”, stavamo aspettando esattamente come tutti gli altri giorni che le mamme venissero a prendere i loro piccoletti, dopo una giornata passata magari a cercare lavoro, con almeno la tranquillità e sicurezza che i loro cuccioli erano protetti ed erano stati nutriti, rivestiti, lavati come sempre, e che come sempre grazie alle cure delle suore avevano potuto passare una giornata giocando come ogni bambino, divertendosi, preparandosi ad accogliere la loro mamma con un sorrisone che le avrebbe ripagate di tutta una giornata di fatica passata a sudare sangue per il loro futuro.
C’è una finestrella, con delle sbarre per evitare che i bambini si facciano male, che dà al cortiletto circondato dalle mura e dal cancello: lì i bambini spesso si affacciano aspettando la mamma, e stanno sempre con il nasino all’insù, guardano sempre qualcosa nel cielo con un’attenzione esorbitante. I primi tempi non ci facevo molto caso, tutta presa dalle ultime cose da fare, pulire i bambini dalle briciole dei biscotti, rimettere a posto i pochi giocattoli, rifare i loro zainetti… Ma poi quel pomeriggio non potei fare a meno di dar retta alla mia curiosità, e cominciai ad osservarli molto attentamente, per cercare di capire di che cosa quei bambini si stavano così meravigliando.

GLI AQUILONI, c’erano gli aquiloni nel cielo, quelli dei ragazzi che tornavano da scuola, che loro non avrebbero avuto mai forse… i bambini si incantavano a vederli fluttuare nel cielo, desideravano anche loro averne uno, allora si inventavano un gioco, e la loro fantasia li aiutava a realizzare almeno per finta un loro piccolo grande sogno. Con la creatività di chi non ha niente ma non può disperarsi, perchè è solo un bambino, questi piccoletti cominciavano ad agitare le manine come se questo aquilone fosse diretto proprio da loro, e si divertivano così, fingendo di godere di un piccolo privilegio che la loro condizione non gli permetteva. Così sembrava proprio che l’aquilone fosse loro, così la cosa non arrivava a saturare i loro pensieri, magari a tormentarli e a far tormentare la mamma di capricci inutili anche perché irrealizzabili, e forse per questo più frustranti.
No, la cosa non poteva essere di loro possesso, ma non per questo si impossessava di loro…
E questo è un comportamento diffuso, che ho visto fare molte volte da tanti bambini anche un po’ più grandi, questo gesto così tenero di far finta di avere un aquilone di qualcun altro, e di dirigerlo con quelle manine verso il cielo… quante volte l’avrò visto fare per le strade di Coroado, e non solo!
E quanto da imparare ancora!

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